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Prima del 79 C., il territorio dell'attuale città di Portici fu parte integrante dell'agro dell'antica Ercolano.
Questo sino alla tremenda eruzione pliniana del Vesuvio, che distrusse Ercolano, Pompei, Oplonti e Stabia. Dopo fu annesso alla vicina Neapolis. Città alle cui sorti è rimasta legata sino ai giorni nostri.
Della presenza romana sul territorio porticese c'era sinora solo la testimonianza dei diari di scavo borbonici, che registravano alcuni importanti ritrovamenti archeologici avvenuti in quest'area e che, in parte, confermavano quanto affermato dal geografo di età augustea Strabone. Ovvero che, ai suoi tempi, la costa del Golfo di Napoli, da Miseno a Sorrento, aveva l'aspetto di una sola grande città, tanto era l'addensarsi di ville marittime lungo il litorale. Infine, l'alto livello di queste costruzioni è testimoniato dal ritrovamento di statue, pavimenti, pitture, stucchi e mosaici, tutti databili a partire dall'età augustea.
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Ben poche sono le notizie che ci sono pervenute dal Medioevo a proposito della zona vesuviana. Dopo la paurosa eruzione del 79 d.C., i luoghi intorno al Vesuvio cadono in un'oscurità quasi completa. Le poche notizie che abbiamo si riducono al ricordo di alcune spaventose eruzioni vesuviane, ad alcune vicende belliche nella lotta tra Goti e Bizantini, alla permanenza dei Saraceni per un breve periodo. Questo sembra confermare che dopo l'eruzione del 79 d.C. le città di Pompei ed Ercolano, non furono ricostruite. Ciò è documentato dalle conclusioni della commissione nominata dall'imperatore Tito, che vista l'entità dei danni dichiarò l'impossibilità di ricostruire le città. Inoltre se le città fossero sopravvissute in qualche modo avrebbero provveduto loro stesse alla loro sopravvivenza nel medioevo con opportune fortificazioni, con propri capi e magistrati di cui sarebbe rimasta qualche traccia. Sembra dunque molto probabile che i loro territori fossero inglobati nella vicina Napoli. Solo quando il Ducato di Napoli acquistò un'effettiva autonomia e fu in grado di assicurare una certa protezione si presume si sia cominciato a bonificare le zone più vicine alla città occupate nel frattempo da una fitta vegetazione boscosa. Il lavoro di bonifica non è stato facile e solo lentamente si riconquistarono le falde del Vesuvio all'agricoltura. Vari documenti riportati dal Capasso datati fra l'836 e l'881 documentano quest'opera di bonifica.
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Alla fine degli anni 90, le ricerche archeologiche nel sottosuolo porticese hanno ricevuto nuovo impulso dalla riscoperta dei diari di scavo borbonici, pubblicati nel volume "Portici archeologica" curato dall'archeologo Mario Pagano, direttore degli Scavi di Ercolano.
È l'inizio di una grande avventura, culminata, poi, nella scoperta a Portici della "Villa e Terme dell'Epitaffio". Questo anche se in un primo momento, le ricerche erano concentrate soprattutto sulla "Villa del Convento", la cui ubicazione sembrava essere indicata con sufficiente precisione dai diari di scavo redatti dall'architetto F. La Vega. A questo scopo, furono effettuati una serie di saggi elettromagnetici, nel piazzale antistante la Scuola Media Statale "Macedonio Melloni, dove una volta c'era il convento dei Gesuiti, e nei cantinati dell'edificio stesso. L'esito di queste ricerche è stato, purtroppo, negativo. Le profonde trasformazioni strutturali, per lo più dovute alle diverse destinazioni d'uso dell'edificio, hanno reso molto difficile, se non impossibile, riuscire ad individuare l'ubicazione dell'antica portineria del convento, dove c'era il pozzo da cui si accedeva ai cunicoli sotterranei.
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Nel 1698, giunta all'orecchio dei cittadini porticesi la notizia della vendita fatta dalla Contessa di Berlips al Marchese di Monteforte, Don Mario Loffredo, fecero istanza al Viceré di volersi loro stessi ricomprare ed essere ammessi al Regio Demanio in grado di "diritto di precedenza". In ciò furono illuminati da tre Dottori di legge nostri Paesani, cioè Cepollaro, Luciano ed Ascione che con una supplica firmata da 82 Cittadini di Portici ricorsero al Vicerè.
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Nel 1631 si verificò quella che è forse la più terribile delle eruzioni del Vesuvio. L'incubo cominciò il 16 dicembre, con un strana nube che crebbe a dismisura, trasformandosi in una colonna di fumo. Caddero scorie, lapilli e ceneri. Il mattino del secondo giorno, mentre il suolo continuava a vibrare, un diluvio trascinò a valle spaventose correnti di fango. Le acque sommmersero in gran parte, oltre ai paesi nord orientali, anche Portici, San Giorgio e Resina. Il cono si spacco al centro e ai lati, eruttando un mare di lava, con un fronte largo fino ad un chilometro, che divorò boschi, campagne e case.